TESTI CRITICI
Strano modo di definire “relitto” un’opera d’arte. Il termine fa pensare ad un naufragio, ai resti di qualcosa di devastato, alla traccia di un evento catastrofico. È un’espressione dura eppure al tempo stesso altamente significativa. Sta a significare ciò che resta di qualcosa che è irrimediabilmente perduto. Hermann Nitsch la usa per nominare un’operazione che non è un quadro e non uno dei suoi eventi teatrali. Una installazione? Da un punto di vista puramente formale i relitti di Nitsch potrebbero venire definiti così ma, nella loro natura più profonda, sono altro. Opere autonome ma al tempo stesso traccia rielaborata di qualcosa che è successo, che ha avuto un impatto devastante e di cui il relitto più che testimonianza è momento di riflessione.
Tutto si origina dal Teatro delle Orge e dei Misteri che è la grande intuizione teorica e la grande realizzazione pratica di Nitsch. L’evento scenico del Teatro delle Orge e dei Misteri è teatro nella sua ragione più profonda e autentica. Atto di celebrazione primaria della vita attraverso il confronto diretto e tattile con la morte. L’elemento primario è l’azione, l’insieme degli atti che gli attori/performer – sia quelli che agiscono attivamente sia quelli definiti dallo stesso Nitsch attori passivi – compiono gli uni sugli altri, in un contatto che è tanto fisico quanto rituale. Azione, poi, è anche quella compiuta con i corpi morti degli animali, col sangue (che scrive in modo diretto la dimensione tragica, richiamandone il fondamento sacrale), con le interiora (il corpo “invisibile”, presenza segreta e perturbante), ma anche con l’uva, schiacciata dionisiacamente a formare una pasta vischiosa.
L’azione, dunque, nel Teatro delle Orge e dei Misteri è rapporto tra corpi, tra corpi e spazio, tra corpi e materia, dando vita ad un teatro di altissima densità sensoriale che tocca altrettanto altissime vette di intensità emotiva e spirituale. Rappresenta una sorta di viaggio compiuto all’interno di quello che Antonin Artaud definiva con un’immagine stupenda: lo sconosciuto che è in noi. Il Teatro delle Orge e dei Misteri mette, infatti, in gioco l’umano nella sua naturalezza primaria, rompendo le croste del quotidiano, dell’essere sociale, del ruolo formale. Lo fa attraverso un impatto forte e violento – senza celare la “crudeltà” dell’esistere e dell’essere, per tornare ad utilizzare un’espressione di Artaud – che ha, però, sempre un suo rigore celebrativo. Il dionisismo, l’ebbrezza orgiastica che è alla radice dell’azione scenica, non è mai caotica, incontrollata, informe. Ha, viceversa, un suo rigore, una sua precisione chirurgica. Diciamolo diversamente: una forma. Come ogni rito, d’altronde, come ogni sacrificio. Nitsch ha sempre molto insistito su questo aspetto del suo lavoro, così come torna frequentemente a parlare del colore, come uno degli elementi, che ne guida la pratica artistica, eppure la dimensione sensoriale è tanto forte che questi aspetti vengono, per lo più, tralasciati. Il Teatro delle Orge e dei Misteri è, invece, una scrittura di azione, materia organica e forma, aggiungendo a tutti e tre questi termini un aggettivo che li qualifica in modo inequivocabile: vivente. Il Teatro delle orge e dei misteri è un modo per confrontarsi con la dimensione del vivente nella sua veste più pura e contraddittoria, in cui festa e morte convivono.
Il passaggio fisico dell’azione nello spazio della scena (intesa nella sua accezione più ampia possibile) è un dato sensibile. La materia organica, il sangue segnano, scrivono non solo i corpi dei performer ma anche il luogo. C’è una matericità vischiosa, densa, satura di odori e colori che lascia inebetiti. Si sarebbe portati a ritenere che sia questo il relitto dell’azione ed invece non è così, l’operazione è assai diversa e molto più complessa, sia dal punto di vista tecnico formale che da quello sostanziale della sua essenza.
I relitti, infatti, sono opere che Nitsch realizza in un secondo momento, partendo dall’azione, ma rielaborandone segni e memoria. Il suo obiettivo non è riesumare il lascito dei materiali dello spettacolo, ma procedere ad un ulteriore momento di elaborazione creativa in cui far entrare in gioco, in maniera diversa, materia e forma. L’azione non c’è più, l’azione è alle spalle, c’è stata, ha marchiato profondamente spettatore e artista, ma adesso è svanita, di lei non resta, appunto, che il relitto.
Ma come sono composti i relitti di Nitsch e di cosa? Ovviamente variano di volta in volta, da relitto a relitto, ma ci sono dei segni e degli elementi ricorrenti che ci consentono di individuarne quella che potremmo definire la “grammatica espressiva”.
Ci sono, anzitutto, gli elementi che fisicamente provengono dall’azione scenica. Ritagli dei grandi teli bianchi sopra i quali si sono svolti gli atti celebrativi del sangue e dell’orgiasmo che si sono macchiati durante l’azione, si sono dipinti di macchie brune, rossastre che danno loro una potente intensità organica. Poi c’è, in una gran parte dei casi, uno dei camici che gli “attori attivi” hanno indossato e che portano iscritti il contatto fisico col sangue e la materia. Il camice è lì esposto quasi come in una posizione a croce. Ad esso, alla sua presenza come oggetto ed al senso che ha nella sua visione artistica Nitsch ha dedicato parole estremamente significative che vale la pena di riportare e su cui opportunamente riflettere. “spesso – scrive – ancora più spontaneamente di quanto si riesca a fare sulla superficie del dipinto, l’intensità si stende sul CAMICE. esso viene automaticamente macchiato, insudiciato, sporcato, toccato imbrattato, cosparso, spruzzato di sangue (colore rosso), di tutti i colori dell’arcobaleno, dello spettro dei colori”. Il camice è la “tonaca” di Nitsch – la definizione è la sua – la veste sacrale del rito. Non a caso a volte nei relitti sono presenti invece i piviali, i parametri per eccellenza della liturgia cattolica: non con intento di profanazione, ma come ulteriore evidenza della celebratività sacrale del gesto artistico. Il camice è l’equivalente sul piano del rito scenico del Teatro delle Orge e dei Misteri, immagine vissuta del sacrificio, eco visibile del “Dioniso lacerato”, così si esprime Nitsch, “essenza del tragico” non nella sua sublimazione letteraria ma nella sua evidenza dell’orrore e della sofferenza.
Base del relitto sono spesso le barelle che sono servite durante gli spettacoli a trasportare i corpi e che qui diventano tavolo, altare. Ed anche se non sono esse a rappresentarlo, c’è sempre un tavolo-altare nei relitti, col camice o la tela a fungere da sfondo. Si comincia così ad intravedere come il relitto sia una costruzione (una costruzione postuma) fortemente e meticolosamente pensata, dotata di una sua struttura compositiva e di materiali che corrispondono ad una logica.
Ma bisogna prima, per comprendere appieno tale logica, tornare ancora ai materiali. Ci sono quelli che discendono dalle performance, ma ce ne sono altri totalmente diversi ed autonomi, dotati, cioè, di una loro storia personale. Tra questi spiccano gli attrezzi chirurgici: bisturi, divaricatori, oggetti destinati ad operare sul corpo, aprirlo, lacerarlo, tagliarlo. Oggetti la cui vista determina un disagio emotivo, perché rimanda all’immagine dell’operazione chirurgica, tortura necessaria ma pur sempre terribilmente dolorosa. Poi ci sono provette ed alambicchi, segnali anche questi che provengono dall’ambito medico e rimandano agli umori del corpo, alle sue secrezioni.
Si tratta di materiali che hanno un rapporto indiretto col clima scenico dell’evento performativo. Ammesso che vi siano stati coinvolti (come può accadere per i bisturi) nell’installazione del relitto essi sono lindi, puliti, se il termine non fosse eccessivo, verrebbe da dire sterilizzati. Rimandano con forza all’azione fisica sul corpo, evocano il sangue come esito inevitabile di quell’azione, ma lo fanno da una postazione fredda, mentale. Sono, verrebbe da dire, il segno scientifico dell’azione sul corpo.
Ci sono, infine, altri elementi i quali appaiono, all’interno del contesto operativo e teorico che caratterizza il lavoro di Nitsch, assolutamente spiazzati: zollette di zucchero o piccole pile di fazzolettini di carta. Con le une e con gli altri Nitsch crea delle file parallele perfettamente regolari che spiccano per il loro candore. La materia conta senz’altro anche in questo caso, ma soprattutto conta la dimensione cromatica. Il bianco candido, così geometricamente disposto, dialoga, se non addirittura contestualizza gli altri elementi.
Da quanto sin qui descritto risulta come i relitti siano delle opere composite, nate da una composizione di elementi diversi che instaurano un dialogo che verrebbe da definire più critico che documentario con le azioni di riferimento. Il dato che con più evidenza emerge dalla loro struttura è un rigore formale di natura cartesiana. Quella “forma” che è parte integrante dell’azione scenica ma che lì rischia quasi di essere travolta dall’intensità emotiva del momento, qui è programmaticamente dichiarata. C’è un ordine straordinario ed una meticolosità assoluta che non lascia nulla al caso. Le file di zollette di zucchero o quelle realizzate con le pile di fazzolettini, non solo sono disposte lungo linee precisissime ma l’intervallo tra elemento ed elemento è calcolato al millimetro. Gli stessi strumenti chirurgici sono disposti con lo stesso ordine con cui li troveremmo sul tavolo di una sala operatoria. Il relitto, dunque, è costruito sul principio della forma, intesa come spazio di raffreddamento del dionisismo dell’azione da cui discende. Pensiamo, ancora, alla dialettica tra i materiali. Se il camice del pittore è l’emblema dell’organico, del calore, di ciò che è sensuale, le zollette di zucchero e i fazzolettini suggeriscono una sensazione di freschezza e purezza, enfatizzata dal geometrico nitore della loro disposizione. La tensione dialettica tra le due polarità è fortissima. In termini nietzcheani verrebbe di parlarne come della tensione tra dionisiaco ed apollineo. In altri termini come di una forma di simbolismo liturgico che evoca, col suo acceso formalismo, l’atto sacrificale che è alle sue spalle, che ne rappresenta senso e radici, ma che ora non c’è più, è una mancanza. Ora c’è un luogo, più che un oggetto, di contemplazione che induce nello spettatore un atto di riflessione, di meditazione, tanto quanto l’evento scenico ne stimola uno di partecipazione o di reazione emotiva.
Introducendoli, avevamo scritto che tecnicamente (secondo il lessico della critica dell’arte) i relitti potessero venire catalogati come delle installazioni, ma avevamo anche segnalato come tale definizione andasse loro stretta. A conclusione del nostro ragionamento possiamo provare a spiegare di più. Il relitto, proprio perché tale rispetto ad un’azione scenica che l’ha preceduto e non opera che nasce ex novo (pur se ne abbiamo doverosamente sottolineato l’autonomia e la specificità), è testimonianza di un evento sacrificale assente, è segno rituale e formale di un fatto fisico e carnale. Testimonianza, verrebbe da dire, nel senso evangelico del termine: rievocazione a distanza e al tempo stesso meditazione. I relitti del Teatro delle Orge e dei Misteri sono delle vere e proprie macchine visive della meditazione sul sacro e sull’atto sacrificale di sangue che da sempre lo origina.