TESTI CRITICI

Contro la Morte del Pubblico (Achille Bonito Oliva)

Con video-tape, video-game, video-clip, realtà virtuale e una sintesi dei linguaggi veloce ed elettrizzante, la tecnologia ha creato un’involontaria scuola d’obbligo di pre-alfabetizzati cronici. Il pubblico dell’arte diventa “istantaneo” “indiretto”, provvisorio ed indeterminato per origine e formazione. La velocità diventa il tempo della contemplazione ed i luoghi d’appuntamento sempre più mimetizzati nello spazio del piccolo svago. Si assiste così ad una morte vaporizzata del pubblico dell’arte, bersaglio e vettore di molte offerte mediatiche.
Ad esempio, la navigazione in Internet sviluppa una anoressia dell’arte, una smaterializzazione dell’opera che sembra eliminare ogni nostalgia per il luogo istituzionale del museo.
Ora la Telematica ne ha ridimensionato e ridefinito ruolo e presenza. La tecnica, nella sua capillare estensione capacità irradiativa fin dentro le mura domestiche, ha allestito un banchetto telematico a domicilio che di nuovo abbrutisce lo spettatore, terminale sazio di un sistema di iper-informazione quotidiana e super-produzione creativa di immagini. La tecnologia più evoluta, come una droga sintetica, ha creato prodotti ibridi in grado di assorbire le più provocatorie sperimentazioni delle avanguardie, scremate di ogni utopia e virtualità conoscitiva.
Le avanguardie storiche all’inizio del secolo con provocazioni, scandali e beffe sono un continuo attentato all’attitudine contemplativa, ripiegata sull’opera come cosa balsamica e legittimante. L’arte si fa sistema sovversivo, schegge di tortura di un pubblico sempre più numeroso di cui non può fare a meno. La negazione dello spettatore funziona proprio come “denegazione”, conferma di un soggetto collettivo vincolato e vincolante, da “schiaffeggiare” nel suo ritardo, comunque da intercettare ed agganciare con mass media, risse, ready-made e Kitsch: Marinetti, Duchamp, Breton, Dalì.
Nel secondo dopoguerra tutto cambia; il pubblico di massa, accoglie le neo-avanguardie, New York prende il posto di Parigi. L’arte sperimenta nuove tecniche e materiali attraverso la tradizione del ready-made e l’assunzione dell’oggetto d’uso, titilla così un più vasto pubblico che riconosce nell’opera elementi di familiarità appartenenti al quotidiano.
Del quotidiano gli artisti negli anni cinquanta e sessanta assumono improvvisazione, rituale e sorpresa: Kaprow, Cage, Ono, Oldenburg, Klein, Manzoni, Nitsch, Beuys, Vostell, Ben, Chiari,
Gilbert & George, Acconci. “Fluxus”, “Azionismo”, “happening”, “performance” e “body art”, coinvolgono in diretta lo spettatore: una sincronia tra produzione e consumo dell’arte.
Il pubblico dell’arte è a questo punto sollecitato a smettere il ruolo di cadaverico voyeur a distanza raffinata, che da molle amateur si faccia deuteragonista dell’evento. La creatività diventa così materia pervasiva ed esaltante fino ad esplodere (con non poca retorica) nei movimenti studenteschi del ‘68 e ‘77.
Questo stesso pubblico ha allora iperidentità, specchio delle più culturali bramosie di un drastico decennio: un grande desiderio di partecipazione.
È chiaro che il pubblico fa numero ed il numero per interna proliferazione amplifica il riconoscimento dell’opera e lo statuto di incontrovertibile realtà sociale per l’artista, lo spettatore semplice – collezionista di sguardi, l’antico e moderno committente (mecenate single o corporation).
Dopo i Medici che nel Rinascimento inventano il pubblico dell’arte (con la concessione alla popolazione fiorentina di visitare in Palazzo Vecchio la loro collezione) è la Chiesa Cattolica nel Seicento, con le sue feste barocche, ad intercettare per strada il primo pubblico di massa (romano e pellegrino), che affolla poi nell’Ottocento i salon nelle grandi città, Parigi.
Eccezione curiosa è Gustave Courbet, per due opere in particolare: la prima, “L’origine du monde” un caso di arte segregata per il tema e l’identità del committente: un pube in primo piano come natura morta per un diplomatico turco. Un quadro per un pubblico selezionato di “soli uomini”, il coup de théâtre di una tenda tirata al momento giusto disvelante “l’origine del mondo”. Nell’altro caso, “Atelier” raffigura un momento di affollata conversazione tra pittori, la coincidenza tra artisti e il pubblico dell’arte. Segno di un linguaggio ormai speciale che ora sembra richiedere uno spettatore informato. Il museo, al contrario, diventa la frontiera del bello generico sigillato dalla sequenza esposta di “capolavori”, luogo blindato da un alto tasso contemplativo del pubblico che degusta la propria conferma nella tradizione sospesa alle pareti.
Per questo il museo è ancora un luogo di calca calma. Gioconda o Guernica, l’arte catalizza attenzione, silenzio e ammirazione. Il pubblico generalizzato in folla viene tranquillizzata dalla istituzione stessa, il museo, favoloso deposito della storia garantita in collezione che, per contattare il presente, fa prevalere l’Evento che documenti l’attualità della ricerca.
Se compito dell’arte, specialmente quella contemporanea, è quello di massaggiare il muscolo atrofizzato della contemplazione collettiva e di sviluppare nel pubblico nuovi processi di conoscenza, allora esiste la possibilità di evitare la morte del pubblico e, al contrario, di creare una interattività tra l’opera dell’artista e il suo fruitore.
Ci sono molti compagni di strada dell’artista, fra essi anche il gallerista o il collezionista che traggono dal rapporto con l’artista e dalla lezione dell’opera nutrimento e stimolo.
Il caso di Peppe Morra che nella sua avventura intellettuale si è emancipato dall’iniziale ruolo di semplice organizzatore o fruitore passivo mediante una presa di coscienza con la specificità poetica dell’opera di Hermann Nitsch.
Ecco allora la nascita di questa nuova struttura su iniziativa di un privato che vuole mettere in evidenza pubblica la capacità dell’arte contemporanea di potenziare la polisensorialità antropologica del corpo sociale.
Originale la struttura data al “Museo Archivio Laboratorio Hermann Nitsch” che non vuole ridurre il pubblico a semplice voyeur, ammirato spettatore di performance. Invece s’è posto il problema di come sviluppare ulteriori processi di conoscenza mediante la progettazioni di dipartimenti che danno al museo una identità interdisciplinare, multimediale.
In tal modo si sottrae il pubblico alla tradizionale ed estatica degustazione del museo, gli si offre invece nuovi modi di interazione con l’arte contemporanea attraverso la valorizzazione interattiva delle sue attitudini con quelle multi linguistiche dell’opera.
L’opera di Nitsch in tal modo diventa il parametro per documentare l’importanza storicamente innovativa del grande artista austriaco e nello stesso tempo evidenziare l’afflato wagneriano della sua opera.
Con i suoi dipartimenti il museo acquista una funzione pedagogica per niente scolastica, semmai segnala il bisogno di nuove strutture capaci di formare un diverso gusto collettivo, complesso e ricco di sconfinamenti verso altri campi della ricerca e non soltanto artistica.
Interessante è la collocazione di questa struttura privata con funzione pubblica nel contesto della città di Napoli, che può trovare proprio nell’arte un campo di irradiazione e proliferazione di nuove energie sociali e culturali. In definitiva la Fondazione Morra è contro ogni intrattenimento puramente spettacolare dell’arte e per questo parte già armata di una tattica e di una strategia. Il momento tattico è costituito dai diversi eventi e scadenze espositive riguardanti l’opera di Nitsch e di altri artisti.
Quello strategico è costituito da un disegno ampio che vuole investire il tessuto sociale entro cui è collocato il museo e della città entro cui è collocato il quartiere.
In definitiva il Museo Archivio Laboratorio vive un suo doppio sogno, un corto circuito tra illuminismo e romanticismo: formare una nuova coscienza e una nuova conoscenza del mondo e
nello stesso tempo potenziare a livello polisensoriale una nuova antropologia dell’uomo.